Voleva solo tornare a casa

Nella notte del 25 Settembre 2005, a Ferrara, il diciottenne Federico Aldrovandi muore pochi minuti dopo essere stato fermato dalla polizia nei pressi dell’ippodromo; sono indagati per la sua morte quattro poliziotti condannati in via definitiva il 21 giugno 2012 a 3 anni e 6 mesi per “eccesso colposo in omicidio colposo”.

Voleva solo tornare a casa

Di Militanza Grafica — Jah

Adoro camminare per la città di notte. Il tempo sospeso, il latrare di un cane in lontananza e quelle macchine che sfrecciano rapide su fiumi d’asfalto, paiono come frecce luminose, quasi magiche. No. Non ci sono arrivato fin qui da solo. Dal Link a qui mi ci hanno portato alcuni amici ma ad un certo punto, come spesso mi è solito fare, chiesi “OH! Accosta un po’ qua” “Ma tu abiti più in là. Eh che cazzo fatti accompagnare”. No. Un mix di sensi di colpa per il tempo fatto perdere ai miei amici e la mia voglia di buttarmi nella giungla cittadina notturna mi fanno scendere da quella macchina. Col senno del poi e del ma le cose sarebbe state diverse. Mi muovo leggero, qualche birra e forse qualcosa di più. Ma tutto ok è nella norma, dicono i ragazzi qua. Mentre cammino osservo il cielo, respirando a pieni polmoni l’aria di Settembre e penso “quante cazzo di cose stanno succedendo in questi anni”. Non so bene che ore sono e sinceramente non me ne frega un cazzo. Sarà tardi, quello poco ma sicuro eppure dalle poche luci accese che posso intravedere dalle finestre qualcuna o qualcuno che è ancora sveglio. Un movimento veloce di una tenda riesce a farmi intravedere un piccolo cucinino. Poi uno sfarfallio luminoso di un televisione ancora accesso. L’altro popolo della notte, penso fra me e me. Cammino. Dopo qualche centinaia di metri mi fermo a pensare quanto sia dopo tutto fortunato ad essere qui. A Ferrara. Sorrido dolcemente. Cammino. La strada di fronte a me la conosco a menadito: quante volte l’ho percorsa di giorno e di notte. Mi ricordo ancora i volti delle persone che ho incontrato in questi giorni. Alfredo ubriaco, la dolce Giovanna intenta a commentare i fatti i cronaca locale, Matteo e Giuseppina ancora mano per la mano dopo così tanti anni di matrimonio. Cammino svoltando per Viale Ippodromo. Una macchina mi passa affianco, metto a fuoco. È una gazzella della Polizia di Stato. Porci, penso. Scorgo la scritta “Alfa 3”. Vi date anche i nomi da guerre stellari, penso. Ma, cammino. La volante rallenta, si ferma come il tempo in quel preciso istante. Tutto si congela come in uno Stargate spazio-temporale. Niente si muove. Io resto come pietrificato ad osservare i penetrati e ipnotici fanali posteriori di quel mezzo guidato da due agenti di polizia. So i loro nomi. So i loro nomi? Come li sapessi sinceramente non mi è dato saperlo. E resto fermo. Ad un tratto comincio a perdere l’udito, che diventa tutto ovattato come se fossi sott’acqua. Resto fermo. Sento alcuni muscoli ed alcune ossa cominciare a far male, dal profondo. Eppure sono fermo. E resto fermo. Provo a muovere la gamba sinistra per provare a compiere un passo in avanti ma niente. Non ci riesco. E resto fermo. Comincio ad agitarmi. È normale penso. Chi di voi in piena notte, dopo una serata con amici ed amiche, dopo qualche birretta, camminando per il proprio quartiere incontrando le luci blu non prova quella strana, strabordante, profonda sensazione di disagio che ti porta a pensà: “Ma che cazzo ci stanno a fare qui loro?!” Oppure “Dai dai andate dritto che non c’ho voglia stanotte” o anche “Eh che cazzo sto solo tornando a casa. A piedi per giunta, nel mio quartiere fra l’altro” come a giustificare che cosa? Boh. Ecco questa volta è diverso. Mi spiego, quando è capita una situazione simile, un sano e pragmatico meccanismo psicologico poneva il mio corpo tutto in una posizione di difesa dagli agenti naturali esterni a modi armadillo. Con uno scatto rapido la mia schiena e i miei nervi si rimodellavano come delle corde in attesa di essere accordate dal liutaio che con sapiente maestria riusciva in questa impresa, a logica impossibile, riparandomi dal mondo esterno. Nessuna luce, blu o bianca che fosse, poteva invadere il mio spazio sicuro. Allora mi concentro e spingo tutte le forze mentali e fisiche verso quella parte dell’amigdala dove si trova quel pulsante che con sincro assoluto azionava il sistema di difesa a modi armadillo che tanto mi era caro. Ma niente, non funziona. Rimango immobile. Resto fermo. Uno strano stato di agitazione, mai percepito così forte nella mia vita, dal basso comincia ad insinuarsi, come dei tentacoli che lentamente cinturano prime le caviglie, poi le gambe fino al bacino. Ok, che cazzo sta succedendo? mi chiedo alzando la voce della mia mente. Ma più mi dimeno e più questi tentacoli si stringono forte intorno al corpo. Alcuni di essi, incuranti degli effetti indesiderati, cominciano a percuotere parte dello stesso. Percuotono forte, tanto. A tal punto che sento che alcuni di essi si spezzano. La volante, nel frattempo, è ancora lì. Non si è mossa di un centimetro. E resto fermo. Il fiato comincia a farsi corto e nella mia testa urlo con il poco ossigeno mentale che mi rimane sperando di trovare una soluzione e pregando che l’amigdala risponda quanto prima al mio comando di difesa a modi armadillo. Ma appena ci provo un paio di questi sudici tentacoli premendo con forza sulla schiena cominciano a schiacciarmi il petto provocandomi un fortissimo e penetrante dolore che invade tutto corpo, come una scossa. Provo a voltarmi per dimenarmi, per liberarmi da essi ma niente. Non riesco a muovermi. E resto fermo. Ad un certo punto chiudo gli occhi come cercando di far sparire quei maledetti fari rossi e blu lampeggianti che mi stanno tagliando le cornee dei miei occhi e sussurro “sparisci, sparisci, sparisci”. Li riapro, con timidezza, con calma. Lentamente. 

La volante non c’è più. Tutto intorno a me pare cambiato. È mattina. La gente è in strada, i clacson risuonano qua e là per la città, il giornalaio è ancora al suo posto che commenta le notizie della giornata con Alfredo, il vecchio del bar che è già ubriaco come sempre. Le gambe e il corpo tornano sciolti, liberi. È tutto un dolore ma riesco a comandarlo sto corpo, finalmente. E cammino. 

Oh bene! Incubo finito.Ancora pochi minuti e sono a casa, cazzo finalmente. Uno sguardo rapido al mio piccolo orologio: sono circa le 11 del mattino. Sto cazzo di Stargate temporale è durato anche più del solito. E se devo essere sincero ha fatto anche tremendamente male sto trip. Pareva vero. Vabbè. Non ci penso, apro il portone che si richiude sbattendo alle mie spalle, salgo le scale e vedo la porta dei miei leggermente aperta, come accostata. La apro piano piano, facendo passare prima il volto e poi la spalla destra come per non disturbare quell’atmosfera densa, carica, nebbiosa, che già dai primi gradini delle scale sentivo, annusavo e quasi bevevo. Trovo mia madre in lacrime, in salotto, circondata da amici, parenti e da due persone in giacca e cravatta che non riconosco inizialmente ma che con sguardo investigativo riesco poco dopo ad identificare come poliziotti. “Ancora sti stronzi e sto giro in casa in mia e che cazzo stanno facendo a mia madre?” Penso urlando fra una sinapsi e l’altra. Mi avvicino dolorante con un balzo a mia madre “Mà, che hai? che è successo? Perché piangi?” ma non mi sente. È come se non ci fossi. “Mamma cazzo sono qua! che cazzo sta succedendo? Che ci fanno tutte ste persone in casa nostra?” Grido scuotendo il suo corpo tenendola per le spalle ma lei non mi sente, non mi vede. Nessuno di loro mi vede. 

Calmo, stai calmo. Non ti agitare. Sei ancora in quel cazzo di stangate maledetto di Viale Ippodromo. L’hai già vista sta scena nei film. È sicuramente un sogno del cazzo dal quale mi devo svegliare il prima possibile perché non mi piace neanche un po’ e sinceramente comincia a turbarmi nel profondo. Osservo intensamente i due agenti di polizia. Completo impeccabile, giacca e cravatta, cartelletta nera, profumo da uomo Esselunga da 10€, dopo barba balsamico in modalità “anche fin troppo”. Uno dei due è sposato, lo capisco dalla fede che porta al dito. “Ancora sti stronzi e sto giro in casa in mia e che cazzo stanno facendo a mia madre?” Penso urlando nella mia mente ormai stanca da sto trip infinito, ma è proprio in quel momento che uno degli agenti si volta e mi fissa intensamente negli occhi. Cazzo mi ha sentito. Mi vede. Resto fermo. Fisso quegli occhi neri, profondi come un pozzo senza fondo. In quegli interminabili secondi di contatto oculare fra me l’agente di polizia, la finestra del soggiorno dove eravamo tutte e tutti radunati si spalanca, mossa da un forte vento di Settembre. Sbatte. Mi volto, perdendo per pochi secondi la scena e vedo la finestra di vetro sottile sottile sbattere contro la libreria poco più in là.  Per un attimo non si rompeva in mille pezzi. Mi rivolto. Cazzo. Non ci sono più. Cioè fatemi spiegare: non c’è più niente. Resta il divano dove sono accovacciato. Mia madre, i miei parenti, gli sbirri, i mobili. Niente. Resta solo nell’aria solamente quel fastidioso e nauseabondo profumo di dopo barba balsamico in modalità “anche fin troppo” con una punta di profumo uomo “Esselunga da 10€”. 

“È normale” sussurra una voce alle mie spalle. Mi volto, lentamente perché in questo dannatissimo stargate i muscoli e le ossa fanno sempre più male. Per davvero. Saranno i postumi di sta cazzo di serata, penso. 

È un ragazzo alto e magro con diversi segni sul volto e sul corpo, come se qualcuno l’avesse picchiato, malmenato e butto giù dalle scale. “Come ti senti?” continua il ragazzo. Deglutisco la poca saliva rimasta e con un filo di voce rispondo di getto, come di pancia, come un disperato: “Che sta succedendo?”. E resto fermo. Il ragazzo fa apparire sul suo volto un bellissimo sorriso come fosse una splendida e dolce mezzaluna e sussurra: 

“Diranno che eri ubriaco, fatto e che è tutta colpa tua”

“Ma di che cazzo stai parlando? Tu chi sei?” Replico, agitato.

“Ti hanno bastonato di brutto amico” risponde, abbassando lo sguardo e spegnendo il sorriso che illuminava la stanza

“Mi devo svegliare. È solo un sogno” mi ripeto un paio di volte, convincendomi che tutto questo sia solo un trip malsano nato da qualche film poliziesco visto qualche settimana prima.

“Mentiranno, verranno processati, perderanno ma torneranno liberi” sentenzia il ragazzo.

Ora basta. Non ci capisco un cazzo, mi inietto tutto il sangue rimasto nel corpo verso gli occhi, le dita delle mie mani si stringono a modi armadillo, irrigidisco tutti e dico tutti i muscoli del corpo che scricchiolano come una vecchia porta di betulla, stringo le pupille a modi cannone spara razzi ed urlo “Che cazzo sta succedendo?”.

Lui si avvicina, non dice una parola, si accovaccia affianco a me sul divano e mi abbraccia forte. Poggio la mia guancia dolorante sulla sua spalla come fosse il cuscino del mio letto che tanto stavo bramando ieri notte, stanotte, ora. Non so, non ci capisco un cazzo. Chiudo gli occhi come per interrompere questo filo narrativo sognante malsano che il mio cervello mi ha imposto questa notte. Ma non mi risveglio. No. Ma rivedo tutto. Tutto. Oh dio. Ora è tutto chiaro.

Per qualche interminabile secondo, prono sulla spalla di questo ragazzo, ripercorro tutto il tragitto al contrario. È come se tutto ora mi fosse chiaro. Nitido. Mi rivedo in strada, in quella strada. Rivedo la volante, poi una seconda. Le botte, tante. Mi vedo a terra chiedere di smetterla, che mi stanno facendo male. Molto male. Poi mi saltano sopra, schiacciandomi come una pressa idraulica la schiena e lo sterno. Poi vedo il telo bianco, l’ambulanza, alcuni curiosi che  sono scesi dagli appartamenti lì accanto. 

Dovrei piangere.

Dovrei urlare.

Ma non ci riesco.

Il 21 giugno 2012 la corte di cassazione ha reso definitiva la condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione per omicidio colposo di Federico Aldrovandi ai quattro poliziotti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. In particolare la quarta sezione penale ha respinto il ricorso presentato dalla difesa dei quattro agenti contro la condanna che era già stata emessa dalla Corte d’Appello di Bologna.

I poliziotti non rischiano però il carcere visto che 3 anni sono coperti dall’indulto. Solo provvedimenti disciplinari.

Non c’è una morale in questa storia.

Voleva solo tornare a casa, penso.

Federico, voleva solo tornare a casa.

E resto fermo. Con lui.

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